Nota biografica

riva

Giorgio Riva (Milano, 1933).

Progettista, pittore, scultore, si laurea in architettura nel 1959 al Politecnico di Milano, dove diventa assistente di Ernesto N. Rogers.

Questa nota si propone di ripercorrere le tappe salienti del suo lavoro rapportandole via via alla evoluzione del suo pensiero di artista e di studioso.

Negli anni ’50 e ’60 studia e opera secondo i canoni che promuovono un’idea sociale dell’architettura. In ogni fase del suo processo ideativo si interessa al senso e all’articolazione dell’abitare umano evitando di farsi condizionare dalle “ingessature ideologiche” del suo tempo. Trae i suoi fondamenti concettuali dall’antropologia, in particolare dalle esplorazioni di Bronislaw Malinowski e da quelle di Claude Lévi-Strauss, che da diverse sponde fanno ormai parte della sua formazione culturale.

Gli studi preparatori all’edificazione di scuole per i Comuni di Pogliano Milanese e Vanzago, poi di Viggiù, Saltrio e Clivio sono un banco di prova importante per la sua professione di architetto. Sono indagini di lunga durata cui partecipano insegnanti, sociologi, pedagogisti, psicoanalisti, ma – per coinvolgere la china burocratica - anche presidi, funzionari e provveditori all’edilizia scolastica: danno tutti con interesse il loro apporto anche perché capiscono di essere chiamati a proposte architettoniche alternative alle “cassettiere d’aule” dell’edilizia scolastica vigente (cfr. Bibliografia).

Ma è interessante notare anche il taglio che Giorgio Riva dà al suo approccio con l’architettura pubblica: “Quando un architetto è chiamato a progettare interventi per una comunità, e i suoi contatti sono mediati da sindaci e assessori, la distinzione fra committente e destinatario è fondamentale. E, non di rado, la domanda che si pone il progettista - per chi sto progettando? – va sollecitata anche negli amministratori per ridestare in loro le conoscenze che hanno sulle condizioni di vita, vedute e necessità dei loro amministrati”. Questa conoscenza può diventare impegnativa anche in territori di modeste dimensioni: “Quando le comunità per le quali si progetta sono interessate da ingenti flussi migratori diventa impegnativo conoscere le differenti concezioni dell’abitare che si intrecciano e, se si riesce, proporre linguaggi architettonici comuni”.

I suoi studi interdisciplinari lo mettono in luce: “in contesti sociali dove s’incrociano diverse culture occorre sapere che uno stesso edificio potrà essere interpretato in modi molto diversi”.  Su questa strada Giorgio Riva si trova presto ad apprendere e praticare linguaggi che definisce come linguaggi dell’abitare: “nella pratica fruizione, il senso dei luoghi dipende certo dalle strutture urbanistiche e architettoniche, sempre vincolanti, ma in parte sta già a priori nella mente degli abitanti” E precisa: “Gli studi e le interviste di Egle Becchi e della sua equipe“ (la Facoltà di Pedagogia dell’Università di Pavia partecipa intensamente ai suoi studi) “lo mettono in chiara luce: la strutture architettoniche condizionano certamente la vita, ma i luoghi abitati vengono frequentemente distinti anche per motivi culturali: diffidenza oppositiva aut adesione fidente sembrano incidere profondamente”. Da questa veduta complessa in cui il senso dei luoghi proviene da strutture e funzioni, ma anche da connotazioni culturali, partono i suoi progetti di architettura. Vi attingono anche gli interventi di micro-urbanistica che chiama “rammendature degli spazi urbani”. In particolare, i progetti che dedica a centri storici di grande delicatezza come quello di Viggiù.

Giorgio Riva è un esploratore di linguaggi, non soltanto in architettura e urbanistica, come gli riconosceranno numerosi critici e storici dell’arte. Negli anni ‘70 sperimenta forme di pittura/scultura che sfociano nei “Foglio-plasma”, bassorilievi a colori in carta resinata, tecnica originale in cui il nuovo fattore determinante è l’inclinazione della luce sull’opera: “Immergo la carta nell’acqua, la macero, la modello con le mani. Ne escono fisionomie diverse e ben riconoscibili a seconda di come ne lumeggio le pieghe e di come le oriento al fascio di luce che le illumina. Gran parte del gioco lo fanno le ombre”. Nascono così i suoi “fantasmi”, così chiama i prodotti della sua fantasia.

La svolta decisiva arriva negli anni Settanta, quando comincia a elaborare un linguaggio espressivo che connette architettura, scultura, pittura e arte della luce. Intuisce di poter trasferire persino concetti e modelli archeologici nei suoi “foglio-plasma”, che non sono certo di pietra, ma bassorilievi plasmati in carta di Colonia: “In questi fogli posso introdurre le stesse chiavi di univocità, ambivalenza e ambiguità che ho appreso dalle città antiche. Ma se chiavi e modelli passano liberamente tra i secoli e da una tèchne all’altra, devo almeno supporre che i confini che anch’io pongo tra i linguaggi delle arti sono concettualmente pretestuosi”. È il pensiero di sintesi che emerge dal suo lavoro, il pensiero che si muove liberamente nello spazio e nel tempo. In definitiva l’unica unità primigenia e indivisibile che Giorgio Riva riconosce “è quella dell’individuo umano”, tutte le altre sono “proiezioni derivate e in continuo fermento”. Fermi, ma non disgiunti, solo i sistemi sensoriali. Sceglie così la via che lo porterà a sperimentare intrecci e fusioni tra linguaggi d’arte: “Persino la lingua, con Leopardi, diventa metafora della musica”. A motivarlo così fortemente è l’ipotesi che nel profondo - “sotto e prima” di ogni scelta di linguaggio d’arte - ci sia “la radice comune che innerva poi ogni tèchne successiva”.

Da questi alvei transdisciplinari (“saperi ricongiunti”) ma anche da studi di storia nascono i suoi saggi più significativi: La trama e il suo dominio, Muri al servizio del rito, Mappa dell’emarginazione, Polisemantica dello spazio abitato, pubblicati fra il ’69 e l’83 su riviste e libri. Alle indagini di Egle Becchi e ai suoi progetti per Viggiù la RAI dedica un documentario a puntate: Viggiù, Microcosmo di frontiera, regia di Massimo Antonelli.  CNR e Regione Lombardia danno il loro sostegno alle sue ricerche. L’utilità di collegare antropologia e architettura è dunque riconosciuta. In Giorgio Riva le due discipline viaggiano ormai di pari passo e producono distinguo basilari: “trama spaziale”, fatta di fisici canali di comunicazione e di altrettanto fisici setti di separazione; in questa trama di per sé condizionante, vive e abita la “rete sociale”, o meglio abitano le “reti sociali spesso smagliate degli abitanti. Queste reti sono a loro volta fatte di modalità, spesso rituali, di fruizione”. Ma come tramite indispensabile fra “trama” e “rete”, Giorgio Riva riconosce l’esistenza di “mappe mentali personali e collettive”, mediante le quali gli abitanti interpretano, accettano o rifiutano il luogo abitato: “Lévi-Strauss le ha scoperte e messe a fuoco come regole “matrilocali” dell’abitare nei villaggi e negli accampamenti Bororo del Mato Grosso; Egle Becchi le ritrova in contesti di forte immigrazione in Lombardia, dove convivono norme di fruizione diverse in uno stesso luogo abitato. Qui, anzi, i codici e le interpretazioni degli autoctoni si scontrano con quelli degli immigrati. Può così darsi che gli uni frequentino abitualmente luoghi che gli altri considerano invece sconvenienti o addirittura proibiti”.  E questo avviene anche senza alcuna influenza o condizionamento della “trama fisica”: si tratta dunque di diversi significati attribuiti dalle diverse culture ai medesimi luoghi: “luoghi come parole il cui senso cambia a seconda del lessico da cui le estrai”.

Nel 1983 esce Il significante poliverso di Giorgio Riva, a cura di Marisa Dalai Emiliani per le edizioni Scheiwiller, sottile rapporto critico sul work in progress del suo fare in arte. È anche la prima rassegna critica sulle sue creature a lui più care, i foglio-plasma di cui si è detto. L’autore ne è felice ma non sa ancora che dovrà abbandonare questa sua tèchne che comporta l’uso di alcoli della serie alifatica, velenosi per i suoi polmoni. Negli anni successivi usciranno numerosi saggi critici su cataloghi e riviste prestigiose come “Abstracta”, “Casabella”, “Telema”. Sono a firma di Floriano De Santi, Vittorio Fagone, Ida Li Vigni, Pier Paride Vidari. Sui quotidiani: Giuseppe Fabbri, Cinzia Fiore, Paolo Manfredini, Carmen Moran, Alberico Sala, Paolo Vagheggi e molti altri.

Nel 1988, con sottili distinguo rispetto alle teorie di Roland Barthes e in decisa polemica con il postumo Corso di De Saussure, pubblica il romanzo-saggio Chiamami Oriente! nel quale immagina una preistorica sanguinosa lotta fra la futura civiltà dei parlanti e quella che ha rifiutato la parola codificata nei lessici. È un viaggio fuori dalla storia, dove si sogna la memoria di una possibile evoluzione antropica che non c’è stata. L’autore la paragona al linguaggio potenzialmente espressivo di una “coda perduta” che in lontani tempi avrebbe preceduto la lingua: “ormai la posso recuperare - dice - solo con un atto di fantasia”. È di per sé indicativa la conclusione della vicenda, dove il boia chiede al condannato: “Come ti chiami?” e questi risponde: “Chiamami Oriente!” Come fosse destinato a tornare in vita.

Negli anni successivi Riva artista continua le sue speculazioni sul confine fra immagine e parola. Per motivi affini si interessa anche al linguaggio del computer che considera “scrematura di linguaggi più ampi nel limitato filtro si/no, acceso/spento dell’algebra di Boole”. Più tardi aggiungerà: “gravi limiti e rischi stanno arrivando con un’intelligenza artificiale a firma di chi?” Già nella mostra personale del 1996, alla Permanente di Milano, dedica un’intera sezione alle sue pitture informatiche (ci tornerà con aggiornamenti anche nella successiva mostra del 2014). Queste sue composizioni al computer si trovano direttamente esposte sui monitor in cui li ha composti. Per un valido suggerimento di Vittorio Fagone, curatore della mostra insieme a Marisa Dalai, tra un dipinto e l’altro una nota sonora scansiona musicalmente gli intervalli. Ne traggono vantaggio soprattutto le sequenze delle immagini che fluiscono in proiezione cinetiche. Le info-grafie - stampe digitali numerate - escono invece per la prima volta nel 1998, in mostra presso l’Ambasciata italiana di Madrid e successivamente all’ Universidad de Bellas Artes di Siviglia, dove l’autore è invitato per conferenze e lezioni.

I suoi interventi proseguono anche in campo filologico. Alessandra Mottola Molfino lo chiama al Poldi Pezzoli per incaricarlo di un Cd – “Dedicato a Piero”- che verrà poi presentato alla Sala Teresiana di Brera nel 1999. È la sua proposta di ricostruzione grafica, architettonica e cromatica del Polittico Agostiniano di Piero della Francesca. Lo impone all’attenzione di critici e storici d’arte soprattutto per “la vena attica” che riconosce nei dipinti di Piero e che il suo Cd mette in evidenza.

Tra il 2000 e il 2002 produce i Cd Info-plasma, Sei lezioni politecniche e Al di là dell’opposizione binaria, in cui presenta dieci file metamorfici e una selezione delle lezioni che tiene al Politecnico di Milano.

Pochi anni dopo la sua indagine su un possibile “metacodice comune a diverse arti” prende corpo nella mostra del 2005 “Confini?” che ambienta a Sirtori nel giardino della casa da lui stesso progettata nel 1969 per i suoi genitori. È la casa che negli anni sta trasformandosi in casa-museo. Qui, con una retrospettiva di Foglio-plasma e di Xilo-plasma (bassorilievi in legno) compaiono per la prima volta le sue Luminose: sono sculture investite da particolari fasci di luce, volta a volta sfumati, opalescenti o taglienti; la loro vista emerge di notte dai boschi e va in dialogo diretto con le stelle e con le luci lontane del fondovalle. A queste sculture di luce Silvia Mascheroni dedica nel 2007 un accurato catalogo: “Le luminose”, edito dal Comune di Sirtori. Avviene così che nella Casa-museo I 3 TETTI pittura, scultura, design, architettura, arte della luce e arte del paesaggio si trovano riunite sotto un unico cielo e delineano la via delle esposizioni di sintesi che seguiranno: Scolpire la luce, del 2012, con catalogo curato da Flaminio Gualdoni, La connessione misteriosa, presentata dall’autore stesso nel 2013 sono i primi esempi. Inizia contemporaneamente una nuova stagione nella vita culturale de I 3 TETTI: già nel 2012 Alessandro Solbiati vi dirige un concerto cui partecipano Laura Catrani, soprano, Emanuela Piemonti, pianista. Nella stessa serata Selene Framarin si impegna in una sorta di balletto fra le luminose suonando un clarinetto critico e riottoso nei confronti delle “ovvietà musicali”. Critico, anzi ironico-caustico, è il brano per clarinetto inventato da Karlheinz Stockhausen. Sempre nel 2012 Giorgio Riva ha l’idea di fare uscire versi di Omero e di Dante dalle luminose del bosco sud, voce di Luca Catanzaro, montaggio spaziale di Francesco Rampichini, traduzioni dal greco di Edi Minguzzi. Omero parla attraverso il collega Demodoco alla corte di Alcinoo re dei Feaci: rassegnato alla cecità ringrazia la Musa per averlo compensato con la gran gioia del canto. Un Dante deluso e decisamente amareggiato lamenta invece: “La lingua, di ciò che lo ‘ntelletto vede, non è compiutamente seguace”. “Non è seguace... non è seguace”, fanno eco le sculture luminose. È nato così un nuovo linguaggio fatto di rami e foglie, forme luminose, versi di poeti, voci e ritmi d’artisti che li interpretano. Ma il suo inventore passa oltre e cerca anche legami musicali con le luminose dello stesso bosco. Propone così una sua elaborazione di un noto brano - "Musica Intuitiva” - di Karlheinz Stockhausen. Il ritmo segmentato dello spartito si presta alla collocazione altrettanto segmentata delle luminose. Lo scultore delle luci ne approfitta per “scolpire nello spazio anche i suoni”. Così le note spaziano da destra a sinistra (o viceversa) nel bosco tramite un articolato sistema di altoparlanti. Toni e ritmi sono però rigorosamente quelli originari di Stockhausen. Stockhausen è già morto, a I 3 TETTI viene suo figlio Markus a portare l’assenso di famiglia. Viene e ringrazia con un memorabile concerto per tromba e flicorno alla luce della luna. La serata si conclude con la sorpresa di un toccante coreo tibetano che Saul Beretta di Musicamorfosi ha preparato in segreto.

Ciò che più conta nell’idea di scolpire suoni tra luminose e fronde di bosco si legge in un breve rapporto dell’autore: “Ho notato che i visitatori erano rimasti impressionati, allora li ho intervistati. Ho così scoperto che per allacciare suoni a immagini luminose non occorrono analogie sofisticate fra le parti. Bastano “consentaneità” molto generali: che a una nota corrisponda una luce, per esempio, che a più note corrispondano più luci, a grappoli corrispondano grappoli. Scelga liberamente la regia come abbinarle e come alternarle, lasci però intatti i ritmi e i toni dello spartito”. Ed eccoci al punto nodale della questione: nell’inevitabile immediatezza di questo video-ascolto chi si occupa di fare le connessioni tra suoni e immagini? Gli intervistati sono espliciti: “Sono i ricordi di musica, le fantasie, i desideri musicali che giacciono o che scaturiscono al momento nella mente degli spettatori”. Ed è forse questo il risultato più interessante ottenuto a I 3 TETTI: l’indispensabile parte attiva dello spettatore nel dare continuità e corso anche dentro di sé ai flussi della comunicazione che gli arriva dall’artista.

Il 2013 è l’anno che I 3 TETTI dedicano ai possibili – o perduti? – legami tra mito, letteratura antica e musica/letteratura contemporanee. Intervengono Edi Minguzzi (Università di Milano) con un suo nuovo libro (Il codice della follia), Alfonso Alberti (Orchestra UNIMI) ed Enzo Bruni (Latinista, Presidente del Consorzio Villa Greppi di Monticello Brianza). Insieme danno luogo a vivaci dibattiti, contrappuntati da momenti di pura musica. In questa chiave, i fantasmi dei miti antichi tornano ad affacciarsi nella cultura contemporanea. In tutt’altra chiave torneranno nelle setate successive con la proiezione di “A quattro mani”, l’opera video-acustica già citata di Francesco Rampichini e Giorgio Riva. Ma, come vedremo, sono destinati a tornare in primo piano nella produzione letteraria di Giorgio Riva.

Gli anni 2014/16 sono quelli in cui a I 3 TETTI si progettano le idee di futuri spettacoli teatrali. E qui interviene Stella Casiraghi già collaboratrice di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano. Premesse architettoniche importanti: il museo si è dotato di un suo luogo teatrale all’aperto (il “Teatrino dell’erba Maderna”) e di una saletta (il suo “Focus”) per studi e approfondimenti. Dispone sempre di ampi prati per le ormai usuali “chiacchierate sull’erba”. Il luogo è pronto, dunque, tuttavia i progetti teatrali richiedono programmazioni a lungo termine. Perciò, mentre Stella Casiraghi programma spettacoli, Giorgio Riva si impegna nel bosco di Nord/Est dove una moria di castagni ha aperto una radura che richiede un riassetto e interventi. Qui si sono aperti nuovi spazi, buoni per temi non ancora affrontati: “rappresentare - ad esempio - i passi che il pensiero umano compie per liberarsi dalle forme stereotipe verso forme libere”. È l’occasione per mettere a confronto forme stereotipe, fantasmi figurativi e geometrie astratte. Giorgio Riva scultore coglie l’occasione per mettere a fuoco il concetto stesso d’informale, e lo fa criticamente, da par suo: “Ricordo che sull’Acropoli di Atene guardavo con un solo colpo d’occhio e vedevo tranquillamente abbinate - l’una a fianco dell’altra - due forme d’arte che oggi diremmo opposte: le Korai veristico-figurative dell’Eretteo e le scanalature sottilissime di quell’orologio di ombre in sagome astratte - ma in movimento continuo - che nei giorni di sole diventa ogni colonna del Partenone”. E conclude: “Al confronto di questo loro egeo convivere sereno, certe polemiche dette “teoriche” di oggi rischiano francamente d’essere beghe minuscole”. S’intuisca da qui la distanza che prende da Jackson Pollock, di cui però apprezza i tentativi di chiarimento.

Nel 2017 inizia la stagione degli spettacoli. Stella Casiraghi proietta e commenta sullo schermo de I 3 TETTI “Un maestro della scena: Giorgio Strehler dirige COSI’ FAN TUTTE di Mozart”. Interessante e commovente anche il dibattito che segue.

Nel 2018 un altro progetto di Stella Casiraghi: nel teatrino dell’erba Maderna Claudio Migliavacca mette in scena “L’ultimo nastro di Krapp”. I pochi posti del teatrino non bastano, il pubblico invade la cavea naturale della collina.

2018-19: Stella Casiraghi e Giorgio Bongiovanni progettano e poi mettono in scena “Il naufragio delle Maschere”. Li ispira un naufragio realmente avvenuto, ma il focus della piece è il dialogo attore-maschera.

I monologhi recitati a I 3 TETTI contengono una costante pedagogica: l’idea che nell’unità organica dell’attore in scena si identifica agilmente anche l’unità organica dello spettatore in platea. Anche la comunicazione d’arte complessiva se ne giova: le grandi luminose entrano in scena come scenografie agli spettacoli.

Ma qui interviene la severa stagione del Covid cui i 3 Tetti cercano di rimediare rifugiandosi nelle comunicazioni “virtuali”. Proprio nel 2019 Skira Editore pubblica il nuovo libro di Giorgio Riva Nell’antro di Efesto – a fonder linguaggi, in programma una prima presentazione milanese al Museo della Permanente e una seconda romana al MAXXI per il 2020. Ma risulteranno entrambe al momento impossibili. Anche il tempo atmosferico si accanisce sui I 3 TETTI con danni alle opere e alle coperture. Ci vorranno un paio d’anni per uscire dal Covid, restaurare e riprendere, sia pure gradualmente, la rotta.

Nel 2022 si riaprono - protette da mascherine e distanziate in misure anti-covid - “le chiacchierate sull’erba”. Lorenzo Paolo Messina organizza e cura una mostra di astrattisti e informali italiani (Bellucci, Benatti, Gatti, Scagnetti, Scaccabarozzi, Veronelli). L’intento di Giorgio Riva è di iniziare un dibattito "scrematorio" sui “numerosi equivoci cui si prestano le categorie in uso e voga nella critica d’arte”, ma le libertà d’uso degli spazi non sono ancora maturi.  Sempre nel 2022 alla Permanente di Milano Stella Casiraghi e Annamaria Ravagnan presentano finalmente L’antro di Efesto – a fonder linguaggi (Skira, 2019), intervistando lungamente l’autore. Pubblico folto e attento.

Solo nel 2023 Claudio Migliavacca riuscirà a organizzare un’ampia e completa mostra di scenografie dei suoi allievi della sua scuola d’arte di Monza. Tornerà nel luglio 2023 come attore e regista di uno spettacolo estremamente suggestivo: Voci dallo Spoon River di Lee Masters. Ancora una volta, complici i neuroni specchio, ciascun spettatore potrà immedesimarsi con l’unico attore a turno in scena. Ma purtroppo la stagione si chiude con un nubifragio ai danni del museo e delle luminose. È tempo di restauri.

All’avvio del 2024 due novità importanti:

  • Francesco Rampichini inizia la sua collaborazione alla direzione artistica dei 3 TETTI: le sue iniziative verranno presto presentate sul periodico del Museo;
  • l’editore Skira pubblica l’ultimo libro di Giorgio Riva: Viaggi e bagagli di padre Zeus. Qui non il dio, ma l’archetipo sopravvivente Zeus, si scontra e polemizza con diversi modelli culturali che preleva dalla storia. Protagonista è il pensiero che non si dà i limiti di tempo e spazio che vincolano invece il corpo umano, i suoi limiti vengono dalla cultura.  

Una prima presentazione del volume è stata programmata dall’Editore presso la Sala del Grechetto alla Biblioteca Sormani di Milano (29 maggio, ore 18). Introdurrà Flaminio Gualdoni, Francesco Rampichini intervisterà l’autore.

Un documentato riepilogo delle radici e degli intenti della casa-museo si trova in Appendice al n. 13 del periodico “da I 3 Tetti” del 1° maggio 2024: è il testamento concettuale che Giorgio Riva affida a Francesco Rampichini.